PSICOGENEALOGIA E RESILIENZA - un caso pratico

Pubblicato il da Maura Saita Ravizza

Riporto qui un caso pratico di un lavoro con il sociogenogramma citato nel libro “Azioni resilienti per le organizzazioni di lavoro una risposta alla crisi” a cura del professore Javier Fiz Perez e di Flavia Maria Margaritelli.

Un capitolo di questo libro era dedicato a un’esperienza fatta da alcuni professionisti di Torino che avevano deciso di messere a disposizione le loro competenze per uno studio sul campo sulla resilienza. Il gruppo si chiamò Risorse in cammino e operò a Torino dal 2014 al 2017.
 
Negli studi sulla crisi si parla sempre di più di resilienza: il processo che accomuna individui, gruppi e comunità nella capacità di affrontare le difficoltà e di uscirne rafforzati.  La prima domanda, semplice e diretta, che il gruppo si è posto è stata: se sono riusciti i bisnonni e  nonni a sopravvivere a due conflitti mondiali, povertà, crisi economiche, epidemie mortali, si può riuscire a non lasciarsi abbattere da questo momento storico di grande difficoltà?
 
Comprendendo che i fattori di resilienza, sono un punto di appoggio in cui una leva (il processo resiliente) può permettere di sollevare un “peso” che non si potrebbe mai immaginare di smuovere, gli strumenti permettono di sperimentare tutte queste qualità che sono state chiamate Fattori di resilienza quali l’umorismo, la caparbietà, la volontà, ecc., per traghettarli dalla conoscenza alla consapevolezza.
 
La psicogenealogia, analisi della storia familiare su più generazioni, fornisce uno strumento per capire da dove si viene e come si possa fare tesoro delle eredità positive che vengono dai propri avi.
Nel passato dei nonni e dei bisnonni si sono succedute altre crisi economiche importanti: la Prima guerra mondiale e i suoi massacri hanno messo l’Europa in ginocchio, in preda alla fame e alla disperazione. La crisi del ’29 ha lasciato milioni di persone senza lavoro in una società dove, non essendoci ammortizzatori sociali, gli individui e le famiglie non avevano di che sfamarsi. Lo stesso si può dire della Seconda guerra mondiale: l’Italia si è dovuta ricostruire dal nulla dopo che la megalomania dei suoi governanti e i bombardamenti dei suoi “salvatori” avevano spinto nella miseria la gran parte della popolazione.
“Prendere coscienza che veniamo da una stirpe che si è potuta riprodurre malgrado condizioni avverse, ci fortifica nell’idea che possiamo, anche noi, fare qualche cosa di positivo con le difficoltà che stiamo vivendo e ci aiuta ad avere speranza nel futuro.” (Boris Cyrulnik, 2005)

La proposta è di esplorare il proprio sociogenogramma o albero genealogico semplificato.

Per ogni membro della famiglia (almeno tre generazioni) si dovrà indicare, su un particolare cartellone prestampato, status culturale, sociale e professionale, ossia componenti economiche, sociali, culturali, ideologiche, psicologiche, secondo uno schema simile al seguente:
  • Nome
  • Professione
  • Epoca storica della nascita
  • Luogo geografico di nascita e di morte (emigrazioni)
  • Classe sociale (operaio, contadino, impiegato, imprenditore, insegnante, ecc)
  • Qualità positive (impegno sociale, atti di altruismo, decorazioni, ecc)
  • Difficoltà incontrate nella vita (separazioni, guerre, fallimenti, malattie, emigrazioni, ecc)
  • Ascesa / regressione sociale.
Il sociogenogramma non analizza le ripetizioni “patogene” nella famiglia ma le situazioni sociali, storiche, economiche e culturali nelle quali gli antenati hanno vissuto. In particolare, la persona scrive o sottolinea in verde le caratteristiche positive e in rosso quelle negative (possibili indicatori di traumi non elaborati) che sono state raccontate a proposito di ogni antecedente diretto (genitori, nonni, bisnonni). Si raccoglie pertanto dati più o meno oggettivi o oggettivizzabili (situazione sociale, economica, lavorativa, territoriale) e altri soggettivi; di questi dati il sociogenogramma propone una lettura che valorizza una visione positiva della storia familiare e dei singoli.
 
Dopo aver iniziato a comprendere cosa sono i Fattori di resilienza, le persone riempiono lo schema del sociogenogramma[1] inserendo per ogni casella, riguardante i predecessori per tre/quattro generazioni, il loro nome, epoca di nascita, luogo, grado di studio o di cultura, professione ed eventi tragici della vita. Durante il workshop sulla resilienza, si è voluto comprendere e analizzare quali Fattori di resilienza siano stati utilizzati dai membri della famiglia per superare le difficoltà che avevano vissuto e in quali di questi la persona che faceva il suo sociogenogramma si riconoscesse.
 
Contemporaneamente agli altri partecipanti, A. compila il suo Sociogenogramma seguendo le indicazioni della titolare del laboratorio, e alla fine fruisce della restituzione della conduttrice e dei rimandi del gruppo circa la sua storia familiare, e soprattutto circa gli aspetti resilienti della sua famiglia. Dalla lettura condivisa in gruppo risulta che il sociogenogramma di A. evidenzia una similitudine interessante: sia il nonno paterno sia la nonna materna non hanno conosciuto i loro genitori naturali perché entrambi sono stati abbandonati alla nascita.

 

Ricordandosi delle narrazioni familiari raccolte nel tempo dai vari membri della famiglia, A. riconosce al nonno paterno, abbandonato appena nato in un istituto di suore, una forza nel lavoro, generosità e coraggio, e una grande capacità di amare. Si evince che il trauma di crescere in un orfanotrofio è stato da lui superato grazie a un’attitudine proattiva in rapporto al lavoro ma anche alla capacità di occuparsi degli altri ed esprimere amore.

Alla nonna paterna A. attribuisce le stesse caratteristiche del nonno. I nonni paterni hanno avuto nove figli, e, anche se la famiglia era povera (erano infatti contadini senza terra), il padre di A. ha potuto studiare e diventare maestro.

A. descrive il padre come reattivo, a volte violento e centrato su se stesso. Ma, percorrendo la sua storia personale, emerge, come possibile trauma, il suo coinvolgimento nella Seconda guerra mondiale e la sua segregazione in un campo di concentramento in Germania. A. aiutata dal gruppo e dalla conduttrice, ipotizza che le qualità resilienti su cui ha potuto contare il padre siano state la generosità, la costante dedizione a svariate passioni, la sua curiosità e l’amore per lo studio.
 
Nella storia materna la persona più resiliente sembra essere la nonna, anche lei, come il nonno del ramo paterno, abbandonata dai genitori, una trovatella affidata a una famiglia di contadini poveri che percepivano del denaro per mantenerla.[1]Malgrado il trauma dell’abbandono e il fatto di essere da tutti conosciuta come orfana e quindi figlia del peccato, molte sono le caratteristiche positive di questa nonna che Angela ricorda: buona, generosa, pacifica, sorridente. Si è potuto supporre, nell’elaborazione successiva, che la sua allegria sia un’indicazione di capacità resiliente: la nonna materna abbandonata dai propri genitori si è sposata e ha avuto cinque figli. La storia familiare registra poi la morte di due di essi per tubercolosi e la malattia di poliomielite di una terza.
Questa nonna ha vissuto una vita particolarmente difficile che avrebbe potuto fare di lei una donna anaffettiva, chiusa in se stessa come spesso accade alle persone con vite problematiche che non riescono a elaborare il lutto della morte precoce dei propri figli. Invece questa nonna è stata una figura di riferimento affettivo importante per A.: si può quasi dire un Tutore di Resilienza[1], per la sua capacità di dare amore e sostegno non solo ad A., un vero esempio di forza d’animo per tutta la famiglia allargata.
 
Del marito, nonno materno di A., si conosce poco, si sa che lavorava come fattorino in una banca ma è morto presto e A. non lo ha conosciuto. Aveva vent’anni più della nonna, cacciava per procurare il cibo alla famiglia, che possedeva due pezzi di terra per la vigna e l’orto, fondamentali per un’economia di sussistenza.
All’interno della famiglia allargata si dice che la tubercolosi fosse entrata in casa perché uno dei figli, durante la Seconda guerra mondiale, nel 1943, a causa degli stenti vissuti in clandestinità come partigiano, aveva contratto la malattia che aveva poi contagiato anche un fratello [1]
 
La madre di A., loro sorella, viene descritta chiusa, lamentosa, rigida e maniacale con l’ossessione per la pulizia, il contrario della nonna con cui A. ha senz’altro avuto una relazione affettiva particolare. La madre è una persona che ha sofferto molto a causa di un difetto al viso e di un tumore al seno; racconta spesso di aver patito la fame e la miseria durante la guerra. Pare non abbia mai superato il trauma dei fratelli morti di TBC; ma di lei la figlia dice anche che fosse, malgrado tutto, forte, e che avesse saputo darle fiducia in se stessa.
 
Inizialmente Angela non aveva segnalato alcuna caratteristica positiva per quanto la riguardava, e soltanto in seguito all’esposizione al gruppo della storia di famiglia ha potuto fare una riflessione circa quello che avrebbe potuto integrare dei progenitori e fare suo.
Infatti, dopo aver commentato il suo albero genealogico, A. scrive le qualità resilienti che si riconosce, alcune delle quali ha appena individuato nei suoi avi e genitori: “amore” per lo studio, “curiosità”, intelligenza, pazienza, fiducia in se stessa, senso del dovere e onestà. Alcuni di questi Fattori di resilienza, sono elencati in quelli necessari per un atteggiamento resiliente.
 

[1]tubercolosi era infatti una malattia mortale in un’epoca in cui la penicillina non era ancora diffusa.


[1]Definizione di Boris Cyrulnik: una persona che aiuta con il suo sostegno e la sua dedizione l’individuo a superare gli eventi negativi o traumatici spingendolo ad avere  fiducia nelle proprie capacità resilienti.


[1]Solo negli anni ’70 del Novecento in Italia è stata creata l’istituzione dell’affidamento familiare, e perfezionata quella dell’adozione. Fino a quegli anni le famiglie ricorrevano a soluzioni di affido privati e non controllati dallo stato e dai servizi sociali, prima di quell’epoca ancora inesistenti. Quando neanche le famiglie di parenti o vicini potevano farsi carico dei minori in difficoltà (abbandonati, illegittimi, orfani) gli orfanatrofi e brefotrofi li ospitavano offrendo cure ed educazione.


[1]Vedi schema di Psicogenogramma nel paragrafo successivo 3.6 Schede di Lavoro

Per essere informato degli ultimi articoli, iscriviti: